Oggi il disturbo del comportamento alimentare (DCA) non è più un tabù, nonostante non se ne parli ancora abbastanza e non si tratti il disturbo con dovizia e professionalità.
Che il percorso di cura sia lungo, complesso, tortuoso e non sempre porti ad una guarigione risolutiva del soggetto, è indubbio. Da qui sorge spontanea la domanda: che cosa è realmente un disturbo del comportamento alimentare?
Il disturbo del comportamento alimentare è un disturbo relazionale che, attraverso il corpo, emaciato o corpulento, comunica un messaggio all’esterno, all’Altro. Può comunicare una certa paura di addentrarsi nelle relazioni e creare un legame. Il soggetto si domanda: posso fidarmi dell’Altro? Posso aprirmi all’Altro? Posso confidargli i miei pensieri e le mie emozioni?
Il linguaggio silenzioso del corpo
Bisogna innanzitutto partire dal corpo, quel corpo che è mediatore verso il mondo esterno, palcoscenico su cui inscenare tutta la sofferenza del soggetto, i suoi pensieri non pensabili e i suoi segreti. Il corpo urla un messaggio più forte di quello che dice.
Allora il corpo diventa un corpo esamine, vuoto, che porta il niente, allo stesso modo in cui si nutre, del niente. Un corpo che scompare, che perde peso e tridimensionalità al fine di essere evidente agli occhi dell’Altro. È attraverso la sua invisibilità che vuole rendersi visibile.
Oppure un corpo pieno, privo di spazio per Sé che sancisce una distanza concreta con il mondo esterno. Un corpo che appare in tutta la sua tridimensionalità per creare un divario e riempire quel vuoto d’amore.
Il corpo all’interno della sfera dei disturbi del comportamento alimentare è inteso come un profondo stato di preoccupazione che invade e contamina ogni area della vita del soggetto: è ora reinterpretato, trasformato, manipolato e aggredito al fine di renderlo controllabile. Un corpo controllato fa sentire il soggetto più a suo agio e più padrone di Sé e degli eventi esterni.
In quest’ottica il corpo viene ad essere il tramite della realtà e, mediante il suo controllo mentale, può illusoriamente renderla immobile e bloccata. Ed è proprio questa inaccettabile mutevolezza che il soggetto tenta in tutti i modi di combattere e di controllare, che pervade la sua mente di pensieri angoscianti al punto da non permettergli di pensare ad altro se non a continuare a ricercare costantemente quel peso zero o a colmare quella fame insaziabile, in grado di far tacere la mente e il corpo, attraverso cui comunica un disagio emozionale e relazionale, inesprimibile a parole.
La sua sofferenza, le sue emozioni e i suoi vissuti sono talmente penosi da risultare impossibile viverli e sentirli mentalmente e, quindi, ricorre al proprio corpo come via di scarico immediata.
Non è solo il cibo che nutre, ma anche l’affetto potrebbe nutrire e riempire il soggetto.
Percorrere la psicoterapia per arrivare alla guarigione
Come già accennato sopra, il problema non è il cibo, né la forma fisica o il desiderio di essere magro o perfetto, il desiderio è un altro, molto più recondito, ed è quello di essere visto, compreso, amato e riconosciuto. Il soggetto, attraverso il cibo e la mortificazione del proprio corpo si fa portatore silenzioso e spietato di un senso di ribellione e di delusione nei riguardi delle relazioni.
I soggetti non vogliono prendere vita, non vogliono crescere, non vogliono relazionarsi.
In tal senso si evince il valore della psicoterapia, grazie alla quale è possibile costruire un ponte, adunare i pezzi della vita del soggetto e proseguire insieme nella continuazione dell’esperienza. Il soggetto potrà così riconoscersi come essere unico ed esistere.
Dr.ssa Martina Tinè
Psicologa-Psicoterapeuta